Un calice e mille lune
Un calice e mille lune
La sera entrava in punta di piedi nella locanda di zio Peppino, quando l’ultima luce del tramonto abbandonava il borgo e i grilli intonavano un canto antico nei cortili di pietra.
Carmela mescolava la polenta nel paiolo con la stessa perizia che le aveva insegnato sua madre, trent’anni prima, quando la locanda dello zio aveva aperto i battenti, divenendo in breve tempo il punto di ristoro favorito di passanti e viaggiatori.
Zio Peppino, grembiule alla vita e camicia ben stirata, dopo aver tagliato il pane in grosse fette da abbrustolire alla brace, stappava una bottiglia del suo vino preferito, inebriandosi, come il primo giorno, di quel profumo ardente di vigneti antichi e amori mai dimenticati.
Sedeva ogni sera all’uscio della locanda, in attesa che gli ospiti gremissero la piccola sala, mentre, rischiarato dalla tenue luce della lanterna, portava il calice alla bocca con la stessa delicata lentezza con cui, tante lune prima, aveva congiunto le sue labbra a quelle di lei.
Era arrivata alla locanda una notte d’agosto, avvolta in una tunica leggera di raso, bianca come il suo incarnato. I capelli corvini, sciolti sulle spalle, e quel passo danzante d’una ninfa giunta dagli angoli più remoti del desiderio.
Aveva sorriso, e l’aveva guardato come mai nessuna prima d’allora.
Peppino non era riuscito a staccarle gli occhi di dosso per tutta la cena.
Le versava il vino ogni volta che le passava accanto, fingendo una noncurante cortesia, malcelata dietro il tremore della sua mano.
Carmela rideva di sottecchi, vedendo suo zio, di solito così sicuro di sé, improvvisamente impacciato come un ragazzino.
Dopo il dessert, fu la donna ad avvicinarsi per prima.
-E’ il vino più buono che abbia mai bevuto. Viene dalle vostre vigne?-
Peppino si voltò di scatto, sbattendo il gomito sul bancone di mogano accanto alla parete.
-Sono lusingato del vostro apprezzamento, Signora. Le nostre vigne sono generose come Giunone lo è per i suoi figli.-
La donna sorrise e si ravvivò una ciocca ribelle dietro l’orecchio.
-Volete pregiarmi della vostra compagnia ancora un poco? Ho una bottiglia che conservo per le occasioni speciali e mi piacerebbe lasciarvi un ricordo che possiate portare con voi, quando ripartirete.-
Lei annuì e Peppino scomparve per la scala a chiocciola che portava in cantina.
Qualche minuto dopo riapparve con una bottiglia d’annata e invitò la donna a seguirlo nel cortile. Sedettero in un angolo solitario, sopra una panca di pietra, nascosta dalla penombra della lanterna. Peppino stappò la bottiglia e riempì i calici. Lei portò il bicchiere alla bocca, senza mai staccare lo sguardo dagli occhi di lui, perduta in quella strana atmosfera di silenziosa complicità.
-Ha un gusto morbido. E’ come le vostre mani.- sussurrò e gli si avvicinò fino a che le loro labbra si incontrarono, lievi.
Si amarono una notte soltanto, inebriati dal profumo del vino e della loro pelle e, quando lei partì, Peppino conservò la bottiglia vuota e le regalò i calici.
Da allora, ogni sera, un uomo all’uscio di una locanda e una donna alla finestra della sua casa lontana brindano all’unisono a un incontro di anime che le mille lune del tempo non sono riuscite a separare.
(Racconto primo classificato al Concorso Letterario AmicoLibro 2014 – Sezione narrativa)