Forse in Continente la notizia non è arrivata, di sicuro non ha avuto grande eco. E allora ve la diamo noi. Qualche giorno fa, la Polstrada di Pistoia ha intercettato 3640 forme di formaggio prodotto con latte ovino che dalla Romania viaggiava verso la Sardegna, e più precisamente a Thiesi, verso lo stabilimento dei Fratelli Pinna, noti industriali sardi. Beccato con le mani in pasta, il patron dello stabilimento, Pierluigi Pinna, si difende: «Trasporto in regola, il formaggio era tracciato e ben conservato». E infatti viene dissequestrato. Niente di illegale insomma, ma invece che finirla là, l’industriale va avanti e provoca i sardi già abbastanza irritati: «È ora di dirlo, la qualità del latte sardo è inferiore a quella del resto d’Europa. Bisogna sfatare il mito della superiorità del latte sardo. Dal punto di vista igienico sanitario siamo come gli altri, ormai, ma il loro è più ricco di grassi e proteine. Da un litro si può produrre molto più formaggio. È buono come il nostro».

Mettiamo anche sia vero, perché allora ripassare da Thiesi per rivendere i prodotti? E soprattutto, in un momento in cui pastori e allevatori fanno i salti mortali per sopravvivere con il latte venduto a un prezzo da fame perché c’è sovrapproduzione (e allora lo portiamo dalla Romania), con che coraggio si può difendere questa strategia imprenditoriale che a niente porta se non ad accrescere il profitto dell’imprenditore a scapito di tutti?

Naturalmente poi Pinna ha fatto marcia indietro, dichiarando all’Ansa che «Si è creato un equivoco. Siamo profondamente dispiaciuti per questo polverone mediatico nato da una incomprensione sulla qualità del latte». L’azienda ribadisce di non utilizzare latte dalla Romania o da altre nazioni per produrre i formaggi e le ricotte nel caseificio di Thiesi destinati al mercato interno, sardo e della Penisola. Il latte estero, dunque, viene usato solo i prodotti del mercato internazionale. E allora perché andava in Sardegna? Ricordatevene quando farete le vostre scelte d’acquisto.

Intanto anche la nostra rete in Sardegna si è mobilitata e volentieri vi riportiamo la riflessione di Stefano Olla, nostro docente Master, esperto del settore lattiero caseario.

Un episodio di cronaca “alimentare”, quello di un carico di formaggi ovini in viaggio dalla Romania verso la Sardegna fermato e sequestrato e liberato dalle forze dell’ordine pochi giorni fa, ha creato un caso interessante nella filiera lattiero-casearia nell’isola. In Sardegna ci piace raccontarci che siamo l’isola dei formaggi e che la natura è la nostra prima, plurimillenaria industria. Ma a conti fatti, l’elemento prevalente di questa narrazione è la parola industria: i fatti mostrano una realtà diversa, meno pittoresca, fatta di un prodotto (il Pecorino Romano) standardizzato, la cui produzione è dominante nel settore ed è appannaggio della porzione industriale della filiera.

In questo contesto, la posizione delle produzioni artigianali, soprattutto di quelle che realizzano l’integrazione tra allevamento e trasformazione del latte, quelle più legate alla millenaria cultura agropastorale, si fa sempre più difficile. Non stiamo parlando solo della difesa o della riscoperta delle tradizioni: il settore è in movimento e richiama giovani imprenditori e sempre più imprenditrici che scommettono su questo lavoro, anche attraverso l’innovazione. Non è facile. Il mercato non riconosce un valore adeguato a prodotti di elevata qualità, a latte crudo, dove il rispetto dell’ambiente e degli animali è il punto di partenza per ottenere la migliore materia prima, il latte. Un grande formaggio inizia dal pascolo, attraverso l’alimentazione delle lattifere. Per questo non è solo in Sardegna che dobbiamo preoccuparci quando il principale operatore industriale caseario nel settore ovino dell’isola fa dichiarazioni del genere e soprattutto delocalizza una produzione che nasce e vive perché pura espressione del territorio.

Non siamo solo noi di Slow Food che dobbiamo chiederci come si possa attribuire l’aggettivo buono un simile prodotto, di sicuro è tutt’altro che giusto. Dove vuole andare questa industria che, non dimentichiamolo, tiene letteralmente per la gola i tantissimi allevatori e pastori sardi? Cosa sa il consumatore finale (ma anche commercianti o ristoratori) dell’origine del prodotto, della conduzione degli allevamenti e della sostenibilità delle produzioni? Noi rispondiamo con i nostri progetti: Presìdi Slow Food, Etichette Narranti, Comunità del cibo, Educazione alimentare e al gusto… Mettiamoci in testa che la salvaguardia dei produttori e la tutela dei consumatori sono due facce della stessa medaglia. Noi ci stiamo lavorando da trent’anni. su cui Slow Food lavora da tre decenni. In Sardegna, i Presìdi del casizolu, del pecorino di Osilo e del Fiore Sardo dei Pastori dimostrano che si può realizzare un percorso di crescita e diffusione di prodotti fortemente radicati sul territorio e legati alla qualità delle materie prime.

Invece, affermare che la quantità è il criterio guida per le scelte produttive significa perdere latti e formaggi più buoni e compromettere insieme la cultura del cibo e la libertà di scegliere cosa mangiare, e un intero sistema economico e sociale. Ricordiamocene quando facciamo la spesa, affinché le nostre scelte portino il mercato a orientarsi verso un cibo buono, pulito e giusto per tutti.

Stefano Olla, Slow Food Sardegna.