levadora

La maternità era un evento molto privato in Sardegna: la donna in genere lo teneva nascosto almeno per i primi mesi e rendeva partecipi dell’evento solo i familiari più stretti.

Non esistendo alcun metodo scientifico per conoscere il sesso del bambino, si ricorreva a quelli degli avi. Il più comune deduceva il sesso del nascituro dalla forma della pancia della mamma: la pancia larga sui fianchi indicava che sarebbe nata una femmina, a punta un maschio.

Durante la gravidanza la donna, se desiderava in modo intenso qualcosa da mangiare, evitava di toccarsi sul corpo perché si credeva che se lo avesse fatto il bambino sarebbe nato cun su disigiu , ossia con la voglia dei cibi desiderati sulla pelle.

Per la salute e per la vita della puerpera e del bambino era necessario chi su pipiu ndi pighessidi totus is lunasa , che il bambino prendesse tutte le lune, cioè che il periodo della gravidanza ricoprisse nove cicli lunari. Si credeva, infatti, che se il bambino fosse nato dopo solo otto mesi di gravidanza no si bieda sa mamma cun su fillu , ossia la madre e il figlio non avrebbero avuto la possibilità di conoscersi, in quanto l’uno, l’altra o entrambi sarebbero morti prima o durante il parto.

Per scaramanzia la mamma preparava is spoglieddasa , il corredino, solo al termine della gravidanza: sa camisedda, sa bambinedda, su cambusciu, is pannitzusu, su giponeddu , d’estate di millerighe e d’inverno di mollettone (la camicina, il vestitino, la cuffietta, i panni, la giacchina). I bambini erano fasciati con panni triangolari tenuti fermi con le spille da balia e, inoltre, avvolti dalla vita in giù con delle fasce che in teoria avrebbero dovuto rinforzarne le ossa e impedire che gli venissero le gambe storte.

Il parto avveniva in casa, accanto al focolare: la donna era assistita dalla madre, dalla suocera e de sa levadora , la levatrice. Si ricorreva al medico solo in casi estremi. Nei tempi più antichi non si chiamava neppure la levatrice ma si ricorreva all’assistenza de sa maista ‘e partu , una donna, in genere, anziana che aveva acquisito con l’esperienza le tecniche per aiutare le partorienti.

La levatrice, invece, era un’impiegata comunale, assunta tramite concorso. In un atto del Consiglio di Comunità di Siliqua del 1882 si ha notizia del bando di concorso indetto dal Comune per la figura, appunto, di levatrice comunale. In esso se ne stabiliscono, tra l’altro, i doveri secondo l’uso locale: assistere la partoriente dall’inizio alla fine del parto; lavare e vestire il bambino per i primi otto giorni, presentarlo al battesimo, lavare la prima camicia della puerpera e accompagnarla in chiesa po s’incresiai , per ricevere la benedizione dal prete.

Dai ricordi delle persone intervistate, questi doveri erano, in genere, rispettati. Sa levadora si recava a casade sa partera , la donna che aveva appena partorito, per circa otto giorni, per lavare e vestire il bambino. Era consuetudine prepararle il caffè e darle la mancia, altrimenti, si diceva, non avrebbe fatto gli auguri di buona fortuna al neonato.

Forse non è mai stata messa in pratica oppure si è perduta nel tempo l’usanza che la levatrice presentasse il bambino al battesimo.

Il rito era celebrato generalmente all’ottavo giorno dalla nascita, pena i rimproveri degli anziani preoccupati del fatto che il bambino potesse morire senza questo sacramento. Il neonato era portato in chiesa da una ragazzina, scelta tra i parenti o nel vicinato. Partecipavano al battesimo, in genere, il padre e i padrini. Questi ultimi erano scelti con cura perché si credeva che su filloru ndi pighessiri i donusu , cioè che il figlioccio ne ereditasse le qualità morali. Il padre del bambino si recava appositamente a casa dei prescelti per chiedere loro sa caridadi de du fai cristianu , la carità di farlo cristiano.

Raramente tale richiesta era disattesa. Chi lo faceva era malvisto dalla comunità perché rifiutava di fare, appunto, un’opera di carità. Un legame speciale, su santuanni , spesso più forte di quello con i parenti, si instaurava tra i genitori e i padrini che, da quel momento, si davano reciprocamente del voi e si chiamavano con i nomi di gopai e gomai , compare e comare. Dopo il battesimo, era consuetudine offrire su cumbidu .

I padrini regalavano ai figliocci la catenina d’oro, oppure is pramixeddasa , gli orecchini piccoli e appuntiti con cui si faceva il buco alle orecchie, e s’aneddu de oru , l’anello d’oro, quest’ultimo soprattutto ai maschietti.

Era compito esclusivo della madrina tagliare, la prima volta, le unghie al neonato cosicché non diventasse ladro. Anche la nonna paterna faceva un regalino al nipotino. La prima volta che andava a vederlo era lei a fasciarlo e in mezzo alle fasce metteva qualcosa, in genere delle monetine.

Al battesimo la mamma non partecipava, perché non poteva uscire di casa prima di quaranta giorni. Era una precauzione presa per tutelarne la salute. Si diceva, infatti, che sa partera teneda sa fossa abetta coranta disi, che la donna, che aveva appena partorito, avesse la fossa aperta quaranta giorni.

Dopo cinque giorni dal parto si alzava per la prima volta e, aiutata dalla levatrice, faceva per tre volte il giro del letto, poi si coricava nuovamente.

Sa prima bessida fiada po s’incresiai , la prima uscita si faceva per andare in chiesa. Il rito de s’incresiu ha origine nella festa della Candelora, che ripropone la cerimonia ebraica della presentazione di Gesù al Tempio e della purificazione della Madonna avvenuta dopo quaranta giorni dal parto.

La donna era considerata impura finché non si recava in chiesa per la purificazione insieme al bambino. La accompagnava la levatrice, la madre o la comare. Il prete, avvertito della sua presenza, andava ad accoglierla e la conduceva fino all’altare. Qui ella accendeva una candela in segno di offerta e ringraziamento e poi, inginocchiata nel primo banco, riceveva la benedizione dal sacerdote che metteva la stola sopra la testa del bambino. Ultimo atto era l’offerta po sa candeba , per la candela. Da questo momento la donna riprendeva la vita di tutti i giorni.

 

Redazione Medasa per Medasa.it