Massimo Palmas direttore artistico del Festival Jazz in Sardegna European Expo è depositario della storia del jazz a Cagliari e in buona parte della musica e organizzazione dei concerti nell’isola. Lo abbiamo incontrato durante la presentazione del libro di Marco Molendini su Principe Pignatelli, fondatore del locale jazz romano Music Inn, per parlare della memoria storica del jazz nostrano.

Mancano oggi dei personaggi visionari nel nostro mondo musicale come il Principe Pepito Pignatelli?

Certamente perché erano i pionieri degli anni settanta del jazz in Italia. Erano quelli che l’avevano importato e vissuto con una passione smisurata molto al di là degli interessi materiali che si potevano avere. Hanno fatto delle follie pur di mandare avanti questa musica.  Certo che mancano perché non c’è più nessuno che può riuscire a fare quello che hanno fatto loro, anche perché quella era un’epoca differente. Moltissimi personaggi, grandi maestri del jazz internazionale, erano lì o li incontravi per la strada nelle vie del centro storico di Roma e non c’era questa rilevanza commerciale che poi ha assunto buona parte di questa musica che per fortuna si è avvicinata anche ad altre  musiche più remunerate del jazz. Però loro hanno vissuto un’epoca magica. Vedere Chet Baker  e viverlo in modo più umano. Un’epoca che è tramontata perché appunto non c’è più Isio Saba.

A proposito di Isio Saba che portava e vendeva il pecorino sardo nel jazz club era un personaggio più che moderno perché oggi per tutto quello che ha fatto sarebbe potuto essere un ambasciatore della Sardegna, posto che oggi mancano tali figure come lui che ha portato il pecorino a Umbria Jazz.

Assolutamente si. Isio a suon di pecorino ha fatto grandi cose perché era comunque un uomo che aveva la Sardegna nel cuore e dentro di sé. Era intriso del suo territorio di provenienza, anche se lui è stato emigrato tra virgolette. Lasciò Ozieri da giovane ma il legame con la sua terra è sempre stato intensissimo. Il metodo del pecorino e pane carasau e un fiasco di vino era un suo metodo consueto che tra l’altro assieme ad Isio abbiamo esportato anche negli Stati Uniti d’America. C’è stato un periodo che andammo con Isio e Alberto Alberti, da uno di questi personaggi leggendari, George Wein, un grande pianista e presidente del Festival production americano, fondatore del Newport Jazz festival e del  New Orleans Jazz and Heritage Festival, le produzioni più importanti del mondo. A Cagliari, se non ricordo male la data, avevamo organizzato  il festival del 1988 che era costato un sacco di soldi e non avevamo potuto pagare i compensi alla Festival Production. Eravamo debitori di tre o quattro cento mila dollari. Ci siamo recati al cospetto di George Wein con una valigia di pecorino sardo legata a spago. Lui ci ringraziò e ci chiese se avessimo portato i soldi. Comunque quella visita fu molto gradita perché di solito i debitori scappano mentre noi ci siamo presentati con il pecorino e ottenemmo un’ulteriore proroga di sei mesi che  ci consentì di organizzare anche l’edizione successiva del Festival.

È stata scritta la storia del jazz italiano, è stato scritto molto anche su Isio Saba, quando si scriverà del jazz sardo? Si c’è stato il libro su Alberto Rodriguez come apri pista, però manca la narrazione dell’atmosfera e lo scenario dell’epoca

Effettivamente non c’è un jazz sardo. Il jazz sardo è intessuto nella storia nazionale del jazz.  Musicisti che sono partiti dalla Sardegna e che sono i principali testimoni di questa musica, Antonello Salis, Riccardo Lay, Mario Paliano, il famoso Trio Cadmo, è stato “deportato” da Isio Saba a Roma. Si piazzarono con un furgone davanti al Music Inn e divennero di casa. Fu così che non solo diventarono grandi musicisti, ma forse lo erano già, ne avevano e hanno un grande talento, e questo è un pezzo di storia del jazz nazionale e contemporaneamente sardo, dove Isio Saba fa anche da tutore e manager di Charles Mingus si scrive così anche un pezzo di storia del jazz italiano. Allo stesso modo vale anche per gli Art Ensemble of Chicago dove Lester Bowie e company hanno trovato a casa di Isio Saba ospitalità. Isio è stato il personaggio riconosciuto a livello europeo che ha aperto le porte ai Festivals europei che ha aperto le porte alla musica d’avanguardia e creativa che non aveva spazio e che non era la Festival Production che era molto Be Bop. Se parliamo di jazz sardo possiamo affermare che la Sardegna ha fatto una buona parte della storia del jazz italiano.

Manca oggi nei giovani jazzisti che escono preparatissimi dai conservatori questa esperienza umana che fece la generazione precedente?

Stiamo attenti i musicisti jazz pionieri, soprattutto gli americani, conoscevano molto bene i compositori di musica classica. Avevano una formazione di base profonda. Per i nostri pionieri sardi molto meno perché all’epoca la scuola non offriva nulla o poco. Queste opportunità non c’erano perché erano assenti le università del jazz come negli Sati Uniti. I nostri artisti erano molto di più autodidatti. Mancava un qualcosa da una parte e dall’altra. Però se c’è l’anima e la passione e la scuola il risultato è differente. Possiamo dire che l’esperienza italiana e dei sardi, come Isio e i nostri jazzisti, ha umanizzato tutto ciò perché Isio era uno di quelli che aveva sempre coltivato il rapporto personale con i musicisti, l’affetto, l’ospitalità, ecc., e che fu anche il lato poi debole dell’attività di Isio stesso perché quel mondo fu poi risucchiato da un sistema e dal business che anche nel jazz ha avuto un’importanza notevolissima.