Abbiamo incontrato Marco Molendini al 42° Festival Jazz European Expo al Teatro Massimo di Cagliari durante la presentazione del suo libro inerente alla storia della nascita dei locali jazz nella Roma della Dolce Vita, che hanno dato i natali alla carriera dei più grandi jazzisti italiani e ospitato i grandi nomi di quello internazionale. Marco Molendini è un giornalista e critico musicale già firma del quotidiano il Messaggero e ha condotto rubriche dedicate al jazz per Radio 1 e Radio 2, incluso lavorando come collaboratore per RAI 5. È autore di diversi libri e in questi giorni è di ultima pubblicazione la biografia del principe Pepito Pignatelli Aragona Cortés, principe batterista e grande estimatore e sostenitore del jazz, che ha presentato a Cagliari durante il Festival Jazz. Marco Molendini ha collaborato anche con Renzo Arbore, ed è docente al Master di critica giornalistica dell’Accademia d’arte Silvio D’Amico.

Pepito Pignatelli è stato un visionario nel dopo guerra italiano, oggi mancano queste personalità?

Diciamo che il personaggio di Pepito è unico al di là delle epoche. Certo allora c’era una maggiore mobilità, un maggiore entusiasmo, una maggiore ingenuità e maggiore voglia di fare cose perché si usciva dalla guerra quindi una generazione come la sua che aveva in qualche modo questo obiettivo.

Perché Pepito Pignatelli amava tanto il jazz che è un linguaggio nord americano?

Lui aveva uno zio, che aveva sposato la sorella del padre. Erano dei personaggi che frequentavano l’alta società europea, in particolare a Parigi. Da Parigi portavano dei dischi di jazz che Pepito iniziò ad ascoltare con lo zio. Poi dopo c’è stato il contributo dell’arrivo degli americani nel dopoguerra che portano lo swing e tutto quel mondo del be bop ecc. e lì la passione è continuata.

Quanto mancano oggi figure o personaggi come Pepito? È vero che oggi è tutto codificato, Festivals, grandi organizzazioni, ecc. Dalla presentazione del suo libro traspare come una voglia di ricerca e sensibile solidarietà

Prima era tutto molto spontaneo, meno mercificato. C’era un clima, che è quello che racconto appunto del locale romano Il “Music Inn”, dove i musicisti arrivavano e stavano lì una settimana. Facevano amicizia, e non è che solamente suonavano. Amavano il contatto umano, e non venivano lì per un giorno e poi prendere l’aereo e andarsene. Vivevano il locale e le persone. Una situazione nata però dal fatto che c’era un proprietario, Pepito Pignatelli, che aveva un unico interesse: fare la musica che gli piaceva e lo entusiasmava il fatto di farla conoscere agli altri.

C’è un suo sogno?

Devo dire che troverei difficile oggi ripetere quel tipo di conoscenze, emozioni ed esperienze. Un po’ perché andando avanti con l’età si diventa anche più disincantati. E un po’ perché le caratteristiche di quel personaggio oggi è difficile trovarle.