buoi


La faccia oscura della Luna :Elvira e Verginia, la bufera.


 

Coperta dello sciallo nero e con su muccadori corruttau, tzia Verginia sedeva sola,
nella vasta cucina semibuia, a guardare la bragie che brillava sotto un sottile
velo di cenere. Non si sentiva di mettere ciocchi che alimentassero un fuoco più
vivo. Le fiamme alte le avrebbero parlato di giorni felici, della sua famiglia
di un tempo, raccolta nella cucina a ridere e scherzare intorno alla tavola
imbandita. Quei tempi non sarebbero più tornati.
Era il destino.

Le avevano riportato a casa il figlio, coperto di rami di quercia, sul carro di
gopai Adoricu.
La ferita alla tempia non sanguinava più e il volto era senza
colore. La barba lunga copriva la bocca serrata nell’ultimo grido prima che si
sparasse il colpo di pistola.
I carabinieri erano a pochi passi prima che
Ninninu si uccidesse, tanto che avevano sentito quello strano messaggio prima di
morire… “Viva l’amore”. L’amore… Ninninu aveva ucciso in nome di quel
sentimento che lo tormentava, da quando aveva capito che Elvira forse non lo
amava più come un tempo.
Si erano conosciuti subito dopo la guerra, quando era
tornato in paese scampando agli orrori delle trincee, agli assalti all’arma
bianca, alla paura di morire cadendo come un fantoccio sul filo spinato.
Era tornato pieno di gloria, con due medaglie sul petto, in un paese che piangeva
cinquanta morti. La mamma lo aveva abbracciato piangendo. Poi gli aveva detto
di togliersi la divisa, perché le vedove non vi leggessero il ricordo di chi non
era tornato. E l’aveva nascosta in cantina, dietro la botte più grande, con la
pistola, la baionetta e due bombe a mano; così, per non separarsi dal suo
passato guerriero o forse per convincersi che non avrebbe mai più sfidato la
morte.
Ma la notte si svegliava ancora preda degli incubi. Sentiva le urla
degli ufficiali, le grida dei feriti e dei barellieri, il colore bianco delle
bende tra il rosso del sangue… e il volto di un ragazzo austriaco rannicchiato
nel cratere di una bomba, con le mani contratte sugli intestini, che lo guardava
con occhi accusatori. Gli aveva sparato, perché smettesse di
guardarlo.

Elvira era stata il ritorno alla normalità, la fine degli incubi,
il riposo dopo la tempesta.
Aveva vent’anni ed era bella come una muvra e
allegra come le colline in primavera.
Lo aveva amato appena lo aveva visto di
ritorno dalla guerra; ma lo ricordava quando era partito con altri ragazzi del
paese dalla piazza del municipio verso la stazione, sul crinale della collina.
Non era cambiato. Lo trovava ancora pieno di fascino, e la ferita di guerra
sulla fronte non la disturbava. Sembrava una ruga più profonda, da uomo maturo e
autorevole.
Elvira lo amava nonostante lo trovasse troppo possessivo, ma le
amiche ne sorridevano dicendole che era solo geloso e questo non poteva che
farle piacere perché significava attaccamento e amore. Elvira aveva bisogno solo
di amiche che la tranquillizzassero e si adagiava sulle loro certezze,
perdonando al fidanzato gli improvvisi scatti di collera, il tremore nervoso
quando le chiedeva “mi stimas”; perché la ragazza sapeva che quella domanda in
realtà era rivolta al futuro… “mi amerai sempre?”.
Da alcuni mesi però le cose erano cambiate. Da quando Egidio era tornato dalla prigionia e aveva
incrociato lo sguardo della ragazza durante una festa di matrimonio. Egidio era,
come Ninninu, uno del 152.o reggimento Sassari e per tutto il pranzo nuziale
avevano raccontato le esperienze di guerra, ridendo al ricordo che alla fine,
stanchi di uccidere e di obbedire, andando all’assalto urlavano “avanti sa
bovida” invece che “avanti Savoia”… si dd’hiat scipiu Cadorna s’hiat
fosilau…
Elvira ascoltava divertita, ma era rimasta indifferente, anche se
lusingata, davanti alla corte discreta che Egidio aveva intessuto senza
preoccuparsi degli sguardi irritati di Ninninu. E lo aveva evitato quando, nei
giorni seguenti, si era aggirato intorno alla sua casa, nel costone di Cresia ‘e
Susu, con l’intento scoperto di incontrarla.
Ninninu vigilava dalla sua casa,
vicinissima a quella di Egidio e stava per ore dietro gli scurini della finestra
a studiare le mosse dell’avversario. Teneva d’occhio anche la sorella Ginedda,
che era amica di Elvira e l’incontrava spesso a Funtanedda, sotto le querce che
coprivano s’Ena. E un giorno che le due donne si erano trattenute a casa di
Egidio per una sera intera, ebbe la certezza che era proprio Ginedda e tenere i
fili della tresca tra la sua Elvira e il suo nemico.

Gli incubi erano ricominciati.
Era in trincea nuovamente a combattere la sua guerra. Non più
urla di ufficiali e sibilo di pallottole, ma il suo cuore devastato dalla
gelosia, ferito dal tradimento che gli ordinava di attaccare, di uscire dalla
trincea e uccidere. Aveva di fronte un solo nemico, ma era come se incarnasse
tutte le sue paure, le sue incertezze… demoni innumerevoli che gli
sussurravano parole di disprezzo e di sfida. E di notte lo sognava, nel campo di
battaglia. Lui usciva nella notte e si aggirava tra i camminamenti nemici, lo
incontrava con un’altra divisa e gli balzava addosso colpendolo con la
baionetta… Egidio lo scherniva tenendosi il petto ferito e gli mormorava con
un gorgoglìo affogato nel sangue…”avanti sa bovida”.
Doveva ucciderlo per liberarsi del suo disprezzo e dell’angoscia che non lo faceva vivere.
Elvira gli parlava con serenità, negava qualsiasi rapporto con Egidio, scherzava su
Ginedda, novella paraninfa; lo abbracciava e lo tranquillizzava, fino a quando
andava via e Ninninu precipitava nuovamente nelle sue ossessioni.
Era la tarda mattina quando Ninninu vide Egidio accostarsi ad Elvira e parlarle avvicinando
il viso al suo. Non ebbe dubbi. Si scostò dalla finestra come se avesse visto un
serpente e sedette al tavolo di cucina con le mani strette intorno alle tempie.
Non poteva più perdere tempo. Doveva obbedire agli ordini che provenivano più
forti dal suo cervello irritato.
Prima di uscire dalla trincea si attacco’ alla bottiglia di acquavite, e gli parve di sentire intorno a se’ i compagni di
un tempo, le minacce contro il nemico lontano, il rumore aspro dei ferri sui
fucili e l’odore acre dei cadaveri lontani sulle rocce.

Un balzo e fu in cantina. Si infilo’ dietro la botte e divenne un soldato.
Egidio era nella stalla che sellava il cavallo e quando si trovo’ di fronte quel soldato in
divisa, con l’elmetto luccicante e la baionetta in mano, ebbe un attimo di
smarrimento, urlo’ di terrore prima che la bomba lo facesse a pezzi. Ninninu
scavalco’ il cavallo ferito che nitriva disperato, uscì come una furia sulla
strada con la baionetta in mano e pugnalo’ Ginedda che accorreva allarmato
dallo scoppio. Nella casa a fianco, Elvira vide il suo uomo correre verso di lei
e non si sottrasse. Lo amava oltre se stessa e si sapeva riamata. Con lui non
poteva correre pericoli, gli si era sempre affidata con l’animo da bambina.
Ninneddu aveva uno sguardo dolcissimo quando le prese la mano e l’attiro’ a se’.
Non si accorse del colpo di pistola che mise fine ai suoi anni.
Ninneddu fuggi’ verso la montagna. Coa de Orroli era appena illuminato dal sole quando, ritto
sulla roccia, vide avvicinarsi i carabinieri. Davanti a lui si ergeva Pizzu ‘e
Monti, e la valle era solcata dal fiume ingrossato dalle piogge recenti. Un
gregge punteggiava di bianco un prato di Bageniedda immerso nel verde cupo
delle querce. E li’ in fondo, oltre la montagna, scorse le lunghe fila dei
nemici in fuga, ne sentiva le urla concitate, il cigolio delle ruote dei carri e
le canne delle mitragliatrici sul dorso dei muli.
Era calmo, aveva vinto la sua guerra. Ed Elvira non aveva avuto paura. Lo amava e lo aveva amato fino alla
fine. Ora poteva andare via con quell’ultima, consolante certezza, e raggiungerla in un mondo senza nemici da uccidere.
Grido’ per l’ultima volta la sua sfida sulla trincea conquistata.
E sparo’ l’ultimo colpo.

Tzia Verginia poté abbracciare il figlio morto per poche ore.
E quando il prete, seguendo la consuetudine di seppellire gli omicidi di notte, si presento’ ai
primi chiarori dell’alba per accompagnare il corpo nel cimitero, la vecchia
noto’ il suo disagio e gli fece cenno di non parlare… “Su vicariu, fakkidi
kussu ki teppit fai, est Deus a perdonai, s’omini non podidi, non
cumprendidi”.
E così fu sepolto l’uomo che aveva ucciso per sopravvivere ai
suoi incubi.

 

Tonino Serra.