Abbiamo incontrato Giovanni Bietti all’European Jazz Expo 2023 al Teatro Massimo di Cagliari. Conversare con il grande Maestro è stato alquanto illuminante e profondamente attuale. Giovanni Bietti, compositore e pianista, non solo ha insegnato composizione ed Etnomusicologia, ma viene ritenuto uno dei massimi divulgatori per le sue conferenze concerti musicali italiani sia su Rai-radiotre che in tutti i maggiori teatri europei ed italiani, e sia come compositore tra i più affermati in tutti il mondo e come saggista musicale.

 

Maestro nell’ambito dei pensieri dell’etnomusicologia uno afferma che i generi musicali portano alla distinzione e di conseguenza alla divisione. Altri pensieri affermano che la musica unisce. È l’uomo stesso che crea le divisioni?

Secondo me sì! Sono gli uomini stessi che dividono. Però bisogna semplicemente stabilire che cosa gli interessa dire attraverso un pezzo di musica. Ci sono stati dei compositori che hanno assunto delle posizioni nazionaliste, diciamo non inclusivo, mentre ci sono altri compositori che oggi abbiamo fatto sentire come Béla Bartók, che è uno degli esempi più illustri, proprio dichiara esplicitamente che il suo intento attraverso la musica è di affratellare i popoli ad onta di tutte le guerre e di tutti i contrasti e quindi usa nelle sue composizioni suggestioni che vengono dalle culture più diverse. Nel caso di Bartók, un esempio autorevole, perché la maggior parte di queste suggestioni lui se le è andate a cercare sul campo. Non se le è trovate pronte. Quindi sono veramente il frutto del suo diretto contatto con le varie culture, studio di brani, studio di stili, studio di linguaggi, e di linguaggi anche parlati. Quindi è chiaro che ci sono state, soprattutto nel secolo scorso, delle espressioni musicali che erano dichiaratamente nazionaliste. A noi piace di più il pensiero Bartokiano, l’idea che la musica sia qualcosa che unisce e non che divide. Un piccolo messaggio di pace che la musica può dare. L’idea dell’Unione Europea e anche specialmente del dialogo culturale i musicisti la hanno saputa sempre realizzare. Gli esseri umani fanno più fatica. Forse c’è tanto bisogno di musica oggi.

Parlando con un collega sul fatto che noi sardi vivendo in un’ isola e rimarcando in modo pressante l’identità sarda, questa identità stessa ci sta portando ad un isolamento. L’essere identitario ci porta così anche verso una chiusura. Ci stiamo auto incarcerando in questi pensieri marcatamente idealistici. È possibile che tale percorso porti ad una presa di coscienza che bisogna anche aprirsi al mondo?

Io credo che ci sia una tensione che si può trasformare in una tensione fertile. Il mondo di oggi tende ad essere sempre più globalizzato. Quindi il fatto di voler mantenere e difendere un’identità, secondo il mio parere, è positivo. Bisogna farlo con intelligenza, aprendosi all’esterno e farlo senza rifiutare ciò che il mondo propone, perché per tanti versi il mondo di oggi ci permette di vivere meglio rispetto a qualche tempo fa, per altri versi sicuramente no, e come sempre si tratta di riuscire a prendere il buono delle cose che abbiamo intorno e di non buttare dalla finestra tutto ciò che ci è stato tramandato e che resta fondamentale ed importante. Credo che il dilemma di qualunque essere umano in qualunque momento storico sia stato questo. Cosa conservare e cosa invece cambiare. Il rapporto tra innovazione e tradizione.

Un’ultima domanda che pongo a tutti gli artisti. Se un domani incontreremo delle intelligenze extraterrestri, con quali linguaggi si potrebbe comunicare? Maestro cosa ci consiglia?

Da musicista non c’è dubbio che sia uno dei linguaggi più immediati più trasversali e universali il suono non ha identità linguistica e il suono di per sé non ha neanche identità culturale. L timbro ha identità culturale. La melodia ha identità culturale. Infatti sappiamo benissimo che la famosa Voyager aveva dei brani musicali fra le prime cose che eventuali intelligenze aliene avrebbe incontrato e abbia avuto la possibilità di percepire. Era proprio la vibrazione che era il suono. Questa caratteristica, credo che tutti qui al festival, abbiano avuto la possibilità e l’esperienza di suonare con musicisti che vengono da altre culture. Da altre culture sia nella tipologia, dove un musicista classico suona con un musicista jazz, ma anche un musicista europeo che suona con un musicista africano, o sudamericano o asiatico. Devo dire che una delle magie della musica è che è immediato il contatto. Non c’è bisogno di mediazione.

C’è un suo sogno Maestro?

Mi piacerebbe che alcune cose che abbiamo provato a comunicare oggi tramite le musiche di Bartók e Ravel, ed anche questa idea della musica come mezzo, realmente, sia per far dialogare le persone che sono molto diverse e distanti fra loro.  Che questa utopia, anche solo per un attimo, diventasse l’utopia di tutti quelli che ci vengono ad ascoltare.