Gallura: La Reula.
La Reula.
Un racconto tra storia e leggenda.
La storia: nel 1600 il nobile Jaime Misorro compì una strage a Tempio Pausania, cuore della Gallura. Qualche anno più tardi il papa gli ordinò di costruire una chiesa, in segno di pentimento, nel punto preciso in cui era avvenuto il misfatto.
La leggenda: per la tradizione gallurese, la Réula era un gruppo di anime penitenti che vagava sulla terra, spesso causando danni – addirittura la morte – a chi aveva la sventura di incontrarla senza conoscere le parole di scongiuro.
Talvolta succede. Qualcuno, distratto, talvolta mi vede. Solo un’ombra, un istante, come un bianco di fumo…
Sono stanco. Mortalmente stanco. E non sopporto più la luce, mi graffia gli occhi… Gli occhi? Quel che ne resta, dovrei dire. Il ricordo mi resta, soltanto il ricordo.
Gli altri se ne sono andati. Tutti. Da quanto, non saprei dirlo. Sono rimasto io solo, quasi fosse il custode di questa chiesa. Ma non è così. Io sono davvero legato a queste mura: non per affetto o chissà quale vincolo di cuore. No, sono proprio catene quelle che mi tengono qui, in questa chiesupola di quattro mattoni e due statue, costruita sulle mie ossa, là dove caddi sotto i colpi di Misorro.
Io non posso andare via. Devo aspettare: aspettare il momento in cui non sarà rimasta più una pietra sull’altra, una scheggia d’altare, un moccolo di candela. Solo allora sarò libero. Fra quanto? Quanti secoli ancora? O millenni?
Eppure c’è stato un tempo in cui questa prigionia non mi pesava. Eravamo in tanti, allora, ad abitare qui; e altri ne arrivavano, quasi ogni sera, attraversando i cunicoli sotterranei da San Pietro, Santa Croce, il Pilare. Altri venivano dai paesi vicini, da Aggius, da Luras, e ci incontravamo qui, nella piazza, quando ancora era libera dai negozi, dalle auto, dai rumori.
“La Reula”, ci chiamavano. Passavamo correndo, ballando, vociando; e ogni notte era un nuovo percorso, una nuova avventura, a caccia di quegli insensati ancora per via, di chi si era perso in campagna, di chi era costretto ad uscire nelle ore più scure.
Non tutti riuscivano a vederci, ma in tanti avvertivano la nostra presenza, la intuivano. C’era chi ci scansava con un segno di croce, chi farfugliava scongiuri, chi sentiva mancargli le gambe e poi si ammalava – di solo terrore.
Alcuni di noi segnavano il tempo: si mostravano a chi, poco dopo, avrebbe raggiunto il confine, saltato quella linea inesistente che separa il nostro mondo da quello dei vivi. Ma altri fra noi, e non pochi, davvero recavano danno. Inseguivano le mandrie, azzoppavano i cavalli, riempivano d’incubi il sonno delle donne.
Sapevamo – eccome, se lo sapevamo! – che non ci era concesso fare del male, e chi trasgrediva sarebbe stato punito, condannato a vagare per un numero d’anni infinito; ma la tentazione era forte: di causare malori, di sconvolgere menti, di stringere gli uomini in cerchi di danza spettrale.
La Reula: e al nostro passaggio serravano le porte, si chiudevano in casa borbottando preghiere, appendevano amuleti al di sopra dei letti, ci sbarravano gli usci rovesciando forconi. Sciocchi! Non erano quei denti da contare a fermarci.
C’era invece qualcosa di cui davvero avevamo paura: parole. Antiche, potenti, a volte incomprensibili, c’erano parole che squarciavano l’aria e strappavano i nostri lenzuoli. Colpivano forse il punto più inquieto dell’anima nostra, privandoci di forze, togliendoci il gusto di molestare, travolgere, spaventare. Si scioglieva la nostra boria in un attimo, e per quella notte la scorribanda era finita.
Ma poi, poco a poco, qualcosa cambiò. Si chiusero gli occhi dei vivi, si spense la loro visione, e pochi mantennero il dono di scorgere il nostro universo. Rimase, la nostra memoria, soltanto nei libri, o in immagini oscure sepolte dentro vecchie credenze.
Inutile andare per strade e per fossi di notte, gridando, a portare scompiglio, seminare timori. Più nessuno ebbe il tempo di ascoltarci, di conoscere, di capire.
Così, l’uno dopo l’altro, i miei compagni se ne andarono: gli spiriti lasciarono la terra di Gallura. Non so per quali angoli di mondo, né se abbiano trovato davvero altri luoghi in cui sopravvivere.
Sono rimasto io solo, aggrappato a questi muri, qui dov’entra la gente a pregare al ritorno dal cimitero. “Il Purgatorio”, lo chiamano. Costruito dal nobile Misorro dove avvenne la strage, dove uccise venti uomini tendendo un’imboscata.
Io non posso andarmene: è ancora lontana la fine della mia condanna. Perché non solo gli assassini sono colpevoli, ma a volte anche gli uccisi; e quando lui mi colpì, pesavano gli errori anche sopra le mie spalle. Fu questa la sentenza: restare vincolato alla chiesa che segna il luogo della mia morte.
Ora vivo in silenzio, fuggendo lo spiraglio di luce che percorre il pavimento; e mi danno fastidio le voci, i passi, i bisbigli, questa donna che viene la sera e raccoglie le offerte e la cera. Da anni non varco la soglia. Sto chiuso qua dentro, in attesa.
Talvolta succede. Qualcuno, distratto, talvolta mi vede. Solo un’ombra, un istante, come un bianco di fumo, e un pensiero più freddo degli altri che scivola in mente. Poi tutto dissolve. E ogni volta m’illudo: m’illudo di esistere ancora, di avere ancora uno spazio, e un nome, o una forma, nei giorni di questo paese che non vuol più sapere di me. Ma sempre mi sbaglio.
Adesso nient’altro mi resta da fare, se non aspettare. Aspettare il momento in cui di questa chiesa non sarà più rimasta una pietra sull’altra, una scheggia d’altare, un moccolo di candela. Allora sarò libero.
Maria Antonietta Pirrigheddu
(racconto vincitore della prima ed. del concorso
“Momenti di vita e cultura gallurese”)