ANDREA DEPLANO: L’IMPEGNO DI UNO STUDIOSO PER LA SUA LINGUA E CULTURA
Andrea Deplano docente di lingua Straniera e di Lingua Sarda presso l’Università di Cagliari, è un linguista e ricercatore nell’ambito non solo della lingua medesima, ma anche dell’arte poetica dell’isola di Sardegna. Sono numerose ed apprezzate in tutto il mondo letterario e al pubblico sardo contemporaneo le sue pubblicazioni che sono state la guida per molti studiosi di questo campo. Lo abbiamo voluto incontrare per conoscere la situazione attuale linguistica e culturale di alcune espressioni culturali della nostra isola.
Come e quando ti sei avvicinato alla lingua e poesia sarda?
Fin dall’infanzia perché mio nonno materno, Giovanni Antonio Sagheddu, era un poeta che viveva in casa con la mia famiglia a Dorgali. Sono cresciuto ascoltando tutte le sue composizioni poetiche, incluso quelle di mia madre. Mio nonno cantava e improvvisava.
Per una donna come tua madre era normale comporre e cantare poesie? Era permesso in Sardegna ad una donna poetare?
Mia mamma Caterina Sagheddu lo ha sempre fatto e in Sardegna c’è sempre stato il canto al femminile. Bisogna tenere presente che l’alfa e l’omega, la vita di ogni persona è guidata dalla donna. La donna è come colei che canta “sa ninnia”, la ninna nanna, ma è anche colei che cantava “sos attitos “, le lamentazioni funebri. Inoltre fra l’uno e l’altro c’erano dei canti del lavoro che erano espressamente femminili. Per esempio, i “muttos” durante la raccolta delle olive, la vendemmia, la mietitura del grano, tutto questo era patrimonio culturale della donna. La donna doveva riuscire a dare risposta in poesia. C’erano delle forme di composizione poetica tali per cui la donna veniva instradata a ciò. Quindi si davano delle piccole strofe all’interno delle quali la donna doveva essere capace, non solo di trovare la rima, ma anche la retrogradazione, cioè il variare la posizione delle parole all’interno del verso. In questo modo veniva sperimentata nella produzione poetica per poter affrontare cose più importanti. C’erano donne che cantavano improvvisando e si cimentavano con gli uomini senza alcun timore e paura.
Tu hai voluto poi mettere per iscritto gran parte di questa eredità poetica. Hai pubblicato tantissimi libri e hai ricevuto tanti riconoscimenti. È stata una grande fatica? Stiamo perdendo qualcosa di questo patrimonio culturale?
Ti faccio presente che provengo, come esperienza materiale, dal canto a tenore. Facevo il basso del canto a tenore e mio nonno era mezza voce del canto a concordu, mentre un suo fratello era il basso che nel 1929 aveva inciso la prima incisione del canto a tenore a Milano. Perciò ho scritto un mio primo libro “Tenores” dove raccontavo come mi sono avvicinato a quest’arte. A partire da ciò ho creato una trilogia, quindi “Tenores”, “Ballos” , dove descrivo i modi di confezionare il ballo, e a seguire “Rimas”, vale a dire tutta la versificazione tradizionale della Sardegna, di tutta la Sardegna, campidanese, gallurese, nuorese, catalana, ecc. Così è nato il mio scrivere, ma avrei fatto meglio a continuare a cantare.
Perché c’è una certa difficoltà nella ricerca e pubblicazione scritta della poesia?
Questo dipende dal fatto che ormai la poesia è uno dei mezzi sempre meno frequenti all’interno della cultura della Sardegna. Un tempo cultura in Sardegna significava poesia, significava canto, o meglio tutto ciò che è poesia viene cantato. Era prima composto all’impronta e poi magari veniva vergato dai trascrittori. Oggi la poesia ha perso molto di quell’importanza. Rimane certamente di importanza rilevante nei premi e concorsi di poesia, come anche nelle pubblicazioni di libri, però certamente non è più quel veicolo di conoscenza, di orgoglio etnico che invece era interno alla poesia della Sardegna. Noi non avevamo una poesia cavalleresca o epica, ma tutto ciò che avveniva all’interno di una comunità paesana, tutto quello era di ispirazione per la poesia. Si diceva “mi no ti canten” , cioè “attento a non diventare oggetto di canto”, perché quello era come una condanna all’eternità. Perché quello era uno sbaglio che veniva stigmatizzato attraverso la chiusura della rima, quindi la forma imponderabile del verso.
Le cause di questo grande cambiamento? È vero che come tu sai, posto che sei anche un docente di lingua francese, che tutto cambia ed è in evoluzione in campo della lingua e del comportamento. Ciò sta avvenendo anche in ciò che concerne la poesia sarda?
La crisi che vive oggi gran parte della cultura tradizionale della Sardegna ha origine proprio in questo. Sono venute a mancare con sempre più forza gli appuntamenti di quella cultura. Si consideri, per esempio, che alle sagre paesane si vivevano all’anno circa quattro o cinque e più feste, se includiamo sia quelle religiose che profane, con grande partecipazione di tutti. C’erano le serate dei poeti improvvisatori, quelle con i cantori a chitarra, ecc. Oggi tutti questi appuntamenti vengono quasi a mancare perché le feste hanno assunto altre dimensioni e altre forme e perciò non vi sono i momenti di proposizione al pubblico. Venendo a mancare ciò è chiaro che la crisi del canto a tenore, del canto a concordu, del canto a chitarra, dei balli ecc., oggi passa attraverso altre forme di concezione. Attualmente al gruppo di ballo di un paese viene delegata la rappresentazione del ballo del paese stesso, ma un tempo tutto il paese sapeva ballare, così come la poesia estemporanea si praticava addirittura nelle cantine private anziché nei “silleris”. Questo era la palestra per magari poter poi salire su un palco da professionista. Oggi tutto ciò non esiste più.
Perciò vi è una certa “pericolosità” antropologica causata da un’identificazione unica per tutti nell’apparire su un palcoscenico o in televisione nel delegare a qualcuno l’identità di tutti o del paese?
Certamente. Si è firmata una delega al gruppo di ballo, al coro dei cantori a tenore, al coro dei cantori del concordu, così come lo si è fatto ai cantori della chitarra. Se prima c’era una chitarra in una cantina o in una festa qualunque popolare, tutti quanti entravano a cantare, chi con una strofetta, chi con un’altra, ecc., mentre oggi tutto questo appartiene a pochi detentori privilegiati. Basti pensare che vi era anche un controllo delle forme da parte del paese. Se si ballava, per esempio, in un modo che non era riconosciuto dall’intera comunità paesana si veniva reguarditi. La stessa voce del coro del tenore poteva richiamare il fatto che non si ballasse nella grammatica del paese. Oggi invece chiunque può confezionare un canto, postarlo in youtube, e quello dovrebbe essere l’espressione del singolo o del paese. Questo è il vero dilemma perché la grande parte delle persone che accedono a youtube non vanno certamente a verificare se quel canto sia l’espressione di un’intera collettività paesana o del singolo. Venendo a mancare il deposito sociale, viene a mancare il controllo sulla lingua e su tutte le altre espressioni della cultura tradizionale.
C’è un sogno di Andrea Deplano?
Direi di sì, nel senso che vorrei continuare a scrivere non perché voglia continuare ad attaccarmi ad un passatismo, quanto perché trovo che all’interno delle ricerche che vedo pubblicate in Sardegna, spesso e volentieri si ha una sola angolazione di analisi di questo. Se si prende, ad esempio, un dizionario etimologico, si troverà l’etimologia ma non il corredo fraseologico. Riuscire a lavorare in maniera multidisciplinare, con un’analisi interdisciplinare, e perciò vedere un soggetto d’analisi da tante angolazioni, questo è il mio sogno. Riuscire a creare degli scritti all’interno del quale si possa trovare poi un insieme di risposte per tanti tipi di studiosi.
Posso confermare che l’interdisciplinarietà manca in molti studi. Il monolitismo accademico ancora non la permette.
Vedi un tempo colui che faceva il basso per il canto a tenore, alla bisogna si improvvisava come “contra” o come voce solista o mezza voce. Non c’era un ruolo definito. Oggi invece siamo giunti alla iper specializzazione di qualunque cosa. Per cui hai il professionista che è muratore e sa fare solo il muratore, mentre un tempo il muratore sapeva fare il maiolicaro, e tante altre cose. Questo oggi avviene in ogni ambito. La multidisciplinarietà permetterebbe invece di avere visioni e funzioni diverse.
Se dovessi incontrare gli extraterrestri come comunicheresti? Che tipo di linguaggio si potrebbe utilizzare? Posto che sei anche un linguista e ricercatore cosa consiglieresti?
Un linguaggio di pace e di fratellanza fra i popoli. La mia non è una visione mistica. Oggi noi abbiamo certamente il problema di avere il massimo rispetto dei nostri fratelli e soprattutto avere un’idea chiara di quello che è il diritto di ogni popolo di vivere, che sia terrestre o che sia di un altro pianeta. Dopo di che io spero bene che esca fuori un buon dizionario che recuperi tutta la lingua sarda. Purtroppo la Legge 22 che ha sostituito la Legge 26 fa mancare il repertorio linguistico lessicale del sardo, ma il sardo è una lingua che ha migliaia di anni. Se continua a vivere come sta continuando a vivere, anche con qualche crisi, beh forse può essere la lingua di un futuro e quindi anche la lingua dell’incontro de “su istrangiu” da ovunque esso provenga.