Abbiamo incontrato Nina Contini Melis grande fotografa e di profonda sensibilità umana. Affermata in tutto il pianeta per i suoi lavori, ha lavorato e viaggiato in molti paesi del mondo, apportando un grande contributo alla cultura e alla conoscenza attraverso suoi reportage giornalistici. Innamorata del jazz le sue opere sono esposte in tutto il mondo. Incontrarla al Festiva Jazz in Sardegna ci ha permesso di dialogare su un aspetto della sua professione, arte ed umanità.

Questa tua esposizione per i vent’anni dalla morte di Alberto Rodriguez in Jazz in Sardegna ha ottenuto un successo di pubblico. Lui che aveva rivoluzionato non solo il modo di fare giornalismo, ma anche le forme di comunicazione nell’isola negli anni settanta, ottanta e novanta attraverso le tue fotografie si è permesso di far conoscere la memoria storica culturale, artistico e musicale della nostra isola. Tu che hai vissuto all’interno di questa comunicazione non solo visiva ma anche musicale, oggi come pensi la musica e come pensi la fotografia con le tue esperienze?

Di quelle attuali o quelle del passato?                  

Tutte e due e come è stata questa evoluzione

L’evoluzione non lo so. Faccio le foto si! Cambia la fotografia , cambia l’enfasi delle cose, però più o meno l’idea è sempre quella. La mia è soprattutto di prendere o cogliere nelle fotografie di persone famose in un momento che non sono sulla scena, ma in quello di un relax, per umanizzare l’artista e la persona. Umanizzare i divi. Molte delle foto sono scattate sia in scena e fuori scena. Io fotografo la danza e artisti plastici, mai a casa loro. Non ho mai portato nessuno in studio perché preferisco fare le foto nel loro ambiente.

Nina tu sei stata la moglie di un grandissimo jazzista di livello internazionale. Cosa significa essere “divi” o non esserlo, e cosa la fotografia può cogliere e trasmetterci dato che è la foto che ci trasmette il mito?

Si questo è vero! Infatti ci sono fotografie di certi personaggi dove un certo scatto, che li ha colti, ha fatto diventare un mito quella stessa foto. Ma i divi sono quelli che noi facciamo divi poi, quelli che sorpassano il fatto di essere semplici musicisti , artisti o scrittori, ecc., e li mettiamo su un piano più alto. Forse neanche lo meritano talvolta, dipende da chi, è un qualcosa che fa il pubblico generalmente più che la persona stessa, dal mo punto di vista.

Ciò che mi ha colpito della tua biografia, tema attualissimo, il fatto che tu sia stata una delle fotografe che si è recata a Chernobyl e hai fotografato la distruzione del nostro pianeta da parte dell’uomo. Questa esperienza che cosa ti ha trasmesso e la paura di giungere in un luogo dove ci sono radiazioni nucleari ?

È stata una esperienza che feci cinque anni dopo l’esplosione del reattore nucleare. Ci andai con un giornalista norvegese, venuto in Ucraina per scrivere una serie di articoli sull’Ucraina stessa che era appena nata come paese indipendente, e lui si era interessato per prendere tutti i contatti e gli appuntamenti per andare a Chernobyl. Ci siamo andati e tutto ciò fa paura perché non vedi niente, nel senso che tutto sembra assolutamente normale, però invece è estremamente pericoloso. Se incontri un animale feroce come un leone lo sai che è pericoloso, mentre lì non c’è niente. C’è la natura, alberi e animali, e tutto sembra normale. C’erano degli scienziati che lavoravano sulla genetica e sul come siano cambiate le piante e gli animali e ci hanno spiegato che nell’osservare, ad esempio un albero, un pino, normalmente dove gli aghi e i rami che sono protesi verso il basso, erano protesi invece in altra direzione rispetto a quella naturale. Un cambiamento e trasformazione genetica che se non conosci non te ne accorgi. Inoltre entro dieci chilometri, perché in un perimetro di trenta chilometrici distanza invece ti fanno cambiare l’auto, devi lasciare la tua e utilizzarne una in concessione lì, per non portare e contaminare con le radiazioni fuori da quel raggio territoriale. Poi giunti ad altri dieci chilometri di distanza ti fanno cambiare gli abiti. Devi lasciare i tuoi ed indossare quelli che loro ti danno, con le scarpe, e si entra nel territorio contaminato. Per me che ero fotografa mi hanno diverse volte avvisato di non appoggiare assolutamente la borsa per terra, di non toccare niente, perché c’è la polvere radioattiva che contamina. Ti rendi conto che stai attraversando un ambiente alquanto minaccioso e pericoloso, ma non c’è niente che te lo fa capire. È una sensazione stranissima. Inoltre c’è questa “città dei fantasmi”, la città modello costruita per coloro che lavoravano alla centrale nucleare e le rispettive famiglie. A loro per 24 ore dall’esplosione non è stato detto niente. Solo  dopo sono stati fatti evacuare. Proprio in tempi tardivi è avvenuta l’evacuazione, perché per un po’ hanno tenuto segreta l’esplosione. Queste famiglie sono dovute andare via lasciando tutti i loro averi. Se si entra nelle case si trovano le cose come nel momento che stavano facendo. I giocattoli dei bambini a terra, le pentole sulle cucine, ecc. Tutto è rimasto come era in quel momento, con le piante che hanno invaso le camere. Si vedono gli alberi che escono dalle finestre ed entrano nei palazzi. 

Tu hai fotografato tutti questi momenti?

Si le ho fotografati per questo giornale norvegese che ha pubblicato tutte le foto.

È stata una grande esperienza?              

Si è stata una grande ed importante esperienza.

Questa esperienza ti ha fatto acquisire una coscienza sociale e civile in relazione al nucleare?

Ce l’avevo già dapprima. Me la ha rafforzata perché vedere da vicino i disastri ti rafforza ancor di più, perché prendi coscienza che l’essere umano sta giocando con un qualcosa che non si rende conto di non sapere contenere e gestire. Basta un incidente e avviene la distruzione totale.

Tu come fotografa porti avanti un discorso di appoggio ed incoraggiamento di questa professione in mano alle donne fotografe. La donna deve ancora molto lottare in questo campo e società?

Meno in certi paesi che in altri. Stiamo facendo dei progressi sicuramente, ma c’è ancora molta strada da fare. Mi ricordo quando appena arrivai a Roma nel 1967 /1968 un giorno litigavo con Marcello. Eravamo giovanissimi fidanzati e allora uscii da casa per fare una passeggiata. Vivevamo a Trastevere e risalendo verso via Garibaldi in direzione del Gianicolo mi ricordo che ogni venti metri c’era un’auto che si fermava per fare delle proposte inopportune. Fu per me una frustrazione uscire di casa per fare una passeggiata in tranquillità e vivere una situazione di molestie, dove un qualcuno ti invadeva lo spazio privato. Per me fu una grande frustrazione. Adesso tutto è migliorato, però essere donna significa anche sopportare delle situazioni che non so se gli uomini sopporterebbero di continuo come lo facciamo noi.

Un ricordo di Alberto Rodriguez che ci faccia anche sorridere?

Alberto per anni non ha mai viaggiato in aereo perché soffriva di aerofobia. Temeva gli spazi aperti. Perciò ci veniva a trovare a Roma, in traghetto ovviamente, stava a casa nostra e quando andava verso il centro attraversava il ponte Sisto con le barriere alte, mentre il ponte Garibaldi che è più aperto non osava attraversarlo. Ricordo questi suoi timori che alla fine è riuscito a superare perché con Grauso quando è dovuto andare in Polonia gli è stato detto che non poteva recarvisi ogni volta in treno.  Riuscì a superare questi blocchi dopo che per anni non aveva mai preso un aereo.

C’è un sogno di Nina Contini Melis?

Di che genere?

Qualsiasi sogno! È bello sognare. Un sogno che vuoi condividere.

Che l’essere umano inizia ad usare la testa invece dei piedi e solo gli istinti per certe cose.

Questo è di sicuro un grande sogno per tutti noi. Grazie.